di STEFANO MAROTTA Aveva cambiato nomi, epiclesi, attributi - soprannomi, anche - nel corso degli…

Fase 1, le voci dell’istante
Le 64 voci di Fase 1 raccontano l’istante in cui la pandemia è entrata nelle nostre vite chiuse in casa.
Un coro di voci estranee che si è amalgamato da solo.
Buon ascolto.
Sembrava solo mia, Milano, quella mattina. Strade deserte. Bar ancora chiusi.
La Fase 1 è iniziata quando il dirimpettaio di ciascuno di noi, alle ore 18, esprimeva il proprio sgomento cantando Domenico Modugno.
«Ritirate il portatile, finite la riunione, andate a casa».
25 febbraio, ponte di Carnevale, Bardonecchia. Si scherza fra amici e si ride, chi sul tappeto, chi sul letto. Leggo a voce alta: «Scuole chiuse per coronavirus».
Mi sveglio con la manina di Matilde che mi accarezza, in giardino il limone è in fiore, la vite poco alla volta si rinverdisce.
È il venti febbraio, siamo all’ospedale. Marco indossa una mascherina. È una polmonite, anomala. È stato in Cina? No. Fuma? Sì. La sedia si fa scomoda.
Quando mai s’è sentito lo sciabordio delle onde di un lago? Era così poca la gente, quella calda domenica di fine febbraio, che tra i vicoli dell’Isola Bella potevi ascoltare le voci della natura.
Uno dei miei colleghi è positivo al Covid. L’ho saputo in autostrada, alle dieci di sera, finito il turno in ospedale.
Ho capito che era una cosa seria quando mi sono sentita meglio. Mi sono resa conto di non avere più ansia,
23 febbraio 2020. Entro nel palazzone dove si svolge la Berlinale per intervistare Philippe Garrell.
Ivan sta sempre all’incrocio.
Uno, due, tre, quattro, cinque. La prima auto della fila è sportiva, deve correre molto veloce, ma con quelli è inutile. Sei, sette, otto, nove, dieci.
È una bellissima giornata, sto sciando con due amici. Negli ultimi anni ho sciato pochissime volte, quest’anno ho finalmente ripreso e apprezzo tutto: la luce, l’aria, il paesaggio,
L’altoparlante ha annunciato che il treno in arrivo da Bologna non si sarebbe fermato a Codogno. Ero a Parma e tornavo a Milano quella mattina presto.
Stazione di Bologna: calca, treni in ritardo, cancellati, deviati, clima di sospetto.
Su un Mestre-Milano semideserto di una domenica mattina la giovane controllora raccontava i nuovi provvedimenti dell’azienda al suo ex professore in viaggio. La consapevolezza stava ormai per consolidarsi. È avvenuto dopo pochi altri giorni, e ancora in treno.
«Evelina, stamattina abbiamo ricevuto la disdetta di dieci scuole che dovevano venire in visita nel fine settimana».
A scuola per la prima volta con gli amici si parla di Covid-19.
Il 24 febbraio ricevo la telefonata del direttore artistico di un teatro in provincia di Caserta. Dice: «Valentina che facciamo con le date del 29 febbraio e 1 marzo. Come siete messi su?»
Mia moglie doveva andare in Cile, sono tre anni che non torna nel suo Paese.
Lucio mi serve il caffè in tazza, e io lo perdono.
Tutti, oggi, siamo confusi. «Devo chiudere», dice.
Wuhan, zona rossa, mascherine. Stazioni chiuse, posti di blocco, barelle, ospedali. Codogno, zona rossa, mascherine,
Ho preso la bicicletta, sono andato in città, in centro. Ho visto il mondo vuoto, come se la storia si fosse ritirata e fosse rimasta in piedi solo la geografia.
Il quartiere cinese sembra Wuhan: tutto chiuso e i pochi in giro per sistemare le ultime cose hanno la mascherina. Già chiusi in casa. Sempre avanti, loro.
Metto piede a Firenze e mi lascio alle spalle una Milano coi teatri chiusi e i ristoranti aperti, Metto piede a Firenze che pensa a tutt’altro.
È successo la sera del primo marzo. Il frullatore si è arrestato di colpo, come tutti gli elettrodomestici che si scassano.
In fondo alla strada, una luce. Giallognola direi. Rarefatta. A piedi da Careggi a Santa Maria Novella: Firenze, un palcoscenico muto.
Davanti alla farmacia, ritto e sorridente, stava sempre Jamaica. Siete spariti. Dove siete? Dove vi hanno portato? E, soprattutto, vi rivedrò ancora?
Chi sono questi? Li conosco, almeno qualcuno, ma non sono gli stessi. Esseri mascherati per un carnevale metafisico.
Oggi è successa una cosa strana. Mentre tornavo a casa di mia mamma ho avuto uno strano impulso. dopo aver camminato per un po’ ho iniziato a correre, correre e correre.
Mi scusi. Mi sente? Lei sulla panchina, signora? Si avvicini alla macchina, cortesemente.
Gli angoli di Corso Massimo sono vuoti. Le prostitute tutte sparite, come le anatre del laghetto di Central Park in inverno. E sento, nel mio respiro, tutta l’incertezza e lo smarrimento assordanti di un mondo che potrebbe andare in pezzi.
Idi di marzo, in bagno con un asciugamano pulito sul viso. La nostalgia degli altri, non solo delle persone care ma anche di quelle che non ho incontrato,
Di solito al mattino presto c’è traffico. I semafori oggi non hanno più i loro clienti in fila. Da oggi non si va, si sta.
È un giovedì pomeriggio e come sempre gli operatori della casa di cura sono barricati nella loro stanza per una riunione. Vi chiediamo, quindi, di consegnarci le chiavi delle vostre auto. È per protezione, vostra e di tutti noi».
«Com’è la neve?»
«Non sono andato. Sono rimasto a Milano».
Sono le 22.45 di domenica 15 marzo. La febbre sale e scende da due settimane, l’arzilla 81enne ha scorrazzato per l’Italia incurante del virus, a mia insaputa, per poi planare qui.
La mascherina è di quelle di fortuna. Cerco di immaginare il suo volto, penso sia bella.
L’ho letto sul volto della presidente slovacca Zuzana Čaputova. Che ha insediato il suo governo vestita di fucsia con mascherina pendant.
Chi fa il mio mestiere, abituato a operare, è costretto alla cerimonia della vestizione. Il barista mi saluta e chiede cosa prendi? Io rispondo: Ciao Marco, mi fai un caffè macchiato?
Negazione, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione, negazione (repeat)
La mia vita continua come prima: lavoro – email, riunioni, telefonate – leggo, faccio un po’ di esercizio fisico – poco – parlo con gli amici, guardo serie tv.
Ottant’anni!
Ma non ne ho neppure cinquanta.
Data la mia età avanzata e la non indispensabilità al lavoro day by day mi ero già autosequestrato con una settimana di anticipo. fase interessante.
Il nove marzo parto da solo dalla montagna. È mattino presto. Mia moglie, i tre bimbi e il cane mi seguiranno di un paio d’ore.
La manina di mia figlia nella mia. Camminiamo a passi lenti lungo il sentiero che entra nel bosco.
Ai primi di marzo le notizie si trasformarono in comportamenti. «Noi civiltà ora sappiamo di essere mortali».
In serata il presidente del consiglio annuncia il lockdown. Accendo la pipa, apro la finestra per respirare un po’ d’aria di Roma. Vedo che la sera del nove marzo in tanti abbiamo realizzato che il coronavirus è una brutta bestia.
Sono un po’ autistico e diligente: appena sono uscite le nuove regole le ho lette, ho educato i parenti e le abbiamo applicate. Mille domande e mille risposte, tutte diverse da quelle che avrei dato tre mesi fa.
Recluso in casa le mie relazioni si sono smaterializzate in pochi giorni, un salto nel vuoto. «Il mondo non sarà più come prima». è la promessa che cercavamo.
Per giorni mi sono alzato pensando che fosse un sogno, dal quale prima o poi mi sarei svegliato. C’è voluto il Papa, il 27 marzo, quando già i morti erano migliaia, perché capissi.
Il lockdown a Tel Aviv è iniziato il 14 marzo, ma ci siamo accorti di precipitare nel baratro la notte di Pesach, per la prima volta separati dal resto della famiglia.
Le quotidiane conferenze di Borrelli con la conta dei morti sono passate. Siamo in una bolla sospesa a goderci il momento che precede lo scoppio, l’istante in cui coglieremo l’altezza da cui cadremo.
«Com’è cresciuto, come si è fatto alto!». Ho avuto il tempo di accorgermene, grazie a quella prossimità di cui avrò nostalgia,
Mi sono accorto che il domani non sarebbe stato più lo stesso la sera del nove marzo 2020. Sono passati quasi cinquanta giorni. Sono cambiato, siamo cambiati, non so come. L’incertezza continua.
Lavoro a casa da anni, la clausura non è un problema. E nei negozi degli arabi la coda che abbiamo visto ai supermercati non c’è mai stata. Ecco il vantaggio di abitare in periferia.
Siedo per terra, in quello che è stato il mio appartamento di Notting Hill. Nella città che ha definito gran parte dei miei vent’anni.
Come ogni quindici giorni, andai a vedere mia figlia a Berlino. Quando il carrello si separò dal suolo, sentii che quel volo mi staccava da un prima.
Un posto dove non può capitarti niente di male. Per Holly Golightly era la gioielleria Tiffany. A me faceva lo stesso effetto il Festival di Cannes.
Temo non esista un «buon momento» per ricevere la diagnosi di una malattia cronica. Ma sicuramente esistono momenti «migliori» di quello in cui è capitato a me: all’alba di una pandemia mondiale, in un ospedale di Manhattan.
Al maneggio è arrivata una cavalla da provare: è lì a Long Island che mi aspetta, devo montarla e decidere se acquistarla. Ho finito di volare. Torno a casa.
Il gioco è rischio controllato, fortuna, strategia. Presagio, mimesi. All’aeroporto vero non gioca più nessuno e quasi ci rimango male. Sono l’unica con la mascherina, code affollate ai controlli. Il gioco era molto più serio.
Aeroporto di New York, 31 marzo 2020. Agli studenti italiani all’estero l’America inizia a fare paura. Dopo due passi la sicurezza ci blocca. Mettetevi in coda. Dobbiamo tornare a casa tutti, mica solo voi.
È come se l’àncora si fosse ingarbugliata. Giriamo in tondo come pesci in una boccia. C’è speranza che la vita forse torni alla normalità. E che rialzeremo la bandiera come facciamo ogni mattina, con il suono delle trombe della Guardia Costiera, e sarà il momento di mollare gli ormeggi, tirare su i parabordi e veleggiare verso un’incognita migliore.